Quanto più un’offesa, come l’abuso, è grave, tanto più si tratta di approfondire le conoscenze onde potersi opporre ai fattori che facilitano le condotte offensive, riaprire alla vita la persona che sia stata lesa, operare affinché l’autore abbandoni uno stile comportamentale sbagliato.
Troppo spesso, invece, la mentalità comune affronta il problema dell’abuso in termini semplicistici: la definizione dell’autore come mostro, l’interesse esclusivo per la sua condanna. Quasi che un atteggiamento diverso implichi una minore percezione circa la gravità di quel delitto.
Invece è vero il contrario. Solo avendo il coraggio di studiare i presupposti soggettivi delle condotte di abuso e gli effetti che esse producono ci si potrà muovere nel solco della prevenzione, offrendo, inoltre, alle vittime qualcosa che vada al di là di una pena inflitta.
Ciò vale anche ai fini della strategia di prevenzione a monte in cui la Chiesa si sta impegnando, attraverso linee guida inerenti alla formazione dei sacerdoti e degli altri operatori ecclesiali, nonché ai percorsi di accoglienza e di crescita dei più giovani nelle parrocchie, nelle scuole cattoliche, negli oratori, e così via.
Per cui lo stesso lavoro di chi è membro delle commissioni diocesane o commissioni di realtà associative per la tutela dei minori non può limitarsi a creare opportunità di ascolto affinché la notizia di un abuso emerga e si attivi un processo canonico e/o penale, ma dovrà farsi carico, altresì, di una lettura attenta della realtà locale, per individuare e contrastare le occasioni favorevoli agli abusi.
Del pari, l’approccio verso chi ha sbagliato non potrà consistere nel mero allontanarlo. Il rischio, infatti, è che la stessa dimissione dallo stato clericale o inflizione di una pena canonica e civile conduca a eludere i profili di corresponsabilità ecclesiale verso simili tipologie di delitto: sia non assumendo impegni riabilitativi volti a impedire che il condannato reiteri, in futuro, atti di abuso, sia non facendosi carico delle esigenze di superamento del trauma subìto da parte degli abusati.
Tutto questo, dunque, secondo i principi di una giustizia non ritorsiva, ma riparativa.